Meriggi e ombre

I
Fine dell’infanzia
 
 
Rombando s’ingolfava
dentro l’arcuata ripa
un mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume.
Di contro alla foce
d’un torrente che straboccava
il flutto ingialliva.
Giravano al largo i grovigli dell’alighe
e tronchi d’alberi alla deriva.
 
 
Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici pallide
più d’ora in ora; stente creature
perdute in un orrore di visioni.
Non era lieve guardarle
per chi leggeva in quelle
apparenze malfide
la musica dell’anima inquieta
che non si decide.
 
Pure colline chiudevano d’intorno
marina e case; ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come il fumo di un casale
che veleggi
la faccia candente del cielo.
Tra macchie di vigneti e di pinete,
petraie si scorgevano
calve e gibbosi dorsi
di collinette: un uomo
che là passasse ritto s’un muletto
nell’azzurro lavato era stampato
per sempre – e nel ricordo.
 
 
Poco s’andava oltre i crinali prossimi
di quei monti; varcarli pur non osa
la memoria stancata.
So che strade correvano su fossi
incassati, tra garbugli di spini;
mettevano a radure, poi tra botri,
e ancora dilungavano
verso recessi madidi di muffe,
d’ombre coperti e di silenzi.
Uno ne penso ancora con meraviglia
dove ogni umano impulso
appare seppellito
in aura millenaria.
Rara diroccia qualche bava d’aria
sino a quell’orlo di mondo che ne strabilia.
 
 
Ma dalle vie del monte si tornava.
Riuscivano queste a un’instabile
vicenda d’ignoti aspetti
ma il ritmo che li governa ci sfuggiva.
Ogni attimo bruciava
negl’istanti futuri senza tracce.
Vivere era ventura troppo nuova
ora per ora, e ne batteva il cuore.
Norma non v’era,
solco fisso, confronto,
a sceverare gioia da tristezza.
Ma riaddotti dai viottoli
alla casa sul mare, al chiuso asilo
della nostra stupita fanciullezza,
rapido rispondeva
a ogni moto dell’anima un consenso
esterno, si vestivano di nomi
le cose, il nostro mondo aveva un centro.
 
 
Eravamo nell’età verginale
in cui le nubi non sono cifre o sigle
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare.
D’altra semenza uscita
d’altra linfa nutrita
che non la nostra, debole, pareva la natura.
In lei l’asilo, in lei
l’estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l’anima nostra confusa.
Eravamo nell’età illusa.
 
 
Volarono anni corti come giorni,
sommerse ogni certezza un mare florido
e vorace che dava ormai l’aspetto
dubbioso dei tremanti tamarischi.
Un’alba dové sorgere che un rigo
di luce su la soglia
forbita ci annunziava come un’acqua;
e noi certo corremmo
ad aprire la porta
stridula sulla ghiaia del giardino.
L’inganno ci fu palese.
Pesanti nubi sul torbato mare
che ci bolliva in faccia, tosto apparvero.
Era in aria l’attesa
di un procelloso evento.
Strania anch’essa la plaga
dell’infanzia che esplora
un segnato cortile come un mondo!
Giungeva anche per noi l’ora che indaga.
La fanciullezza era morta in un giro a tondo.
 
 
Ah il giuoco dei cannibali nel canneto,
i mustacchi di palma, la raccolta
deliziosa dei bossoli sparati!
Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme.
Certo guardammo muti nell’attesa
del minuto violento;
poi nella finta calma
sopra l’acque scavate
dové mettersi un vento.
 
 
L’AGAVE SULLO SCOGLIO
 
Scirocco
 
O rabido ventare di scirocco
che l’arsiccio terreno gialloverde
bruci;
e su nel cielo pieno
di smorte luci
trapassa qualche biocco
di nuvola, e si perde.
Ore perplesse, brividi
d’una vita che fugge
come acqua tra le dita;
inafferrati eventi,
luci – ombre, commovimenti
delle cose malferme della terra;
oh alide ali dell’aria
ora son io
l’agave che s’abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d’alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
 
Tramontana
 
Ed ora sono spariti i circoli d’ansia
che discorrevano il lago del cuore
e quel friggere vasto della materia
che discolora e muore.
Oggi una volontà di ferro spazza l’aria,
divelle gli arbusti, strapazza i palmizi
e nel mare compresso scava
grandi solchi crestati di bava.
Ogni forma, si squassa nel subbuglio
degli elementi; è un urlo solo, un muglio
di scerpate esistenze: tutto schianta
l’ora che passa: viaggiano la cupola del cielo
non sai se foglie o uccelli – e non son più.
E tu che tutta ti scrolli fra i tonfi
dei venti disfrenati
e stringi a te i bracci gonfi
di fiori non ancora nati;
come senti nemici
gli spiriti che la convulsa terra
sorvolano a sciami,
mia vita sottile, e come ami
oggi le tue radici.
 

 —

MAESTRALE
 
S’è rifatta la calma
nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
 
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia.
 
Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s’increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.
 
O mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto coi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:
 
sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
“più in là”!
 
VASCA
 
Passò sul tremulo vetro
un riso di belladonna fiorita,
di tra le rame urgevano le nuvole,
dal fondo ne riassommava
la vista fioccosa e sbiadita.
Alcuno di noi tirò un ciottolo
che ruppe la tesa lucente:
le molli parvenze s’infransero.
 
Ma ecco, c’è altro che striscia
a fior della spera rifatta liscia:
di erompere non ha virtù,
vuol vivere e non sa come;
se lo guardi si stacca, torna in giù:
è nato e morto, e non ha avuto un nome.
 
— 
EGLOGA
 
Perdersi nel bigio ondoso
dei miei ulivi era buono
nel tempo andato – loquaci
di riottanti uccelli
e di cantanti rivi.
Come affondava il tallone
nel suolo screpolato,
tra le lamelle d’argento
dell’esili foglie. Sconnessi
nascevano in mente i pensieri
nell’aria di troppa quiete.
 
Ora è finito il cerulo marezzo.
Si getta il pino domestico
a romper la grigiura;
brucia una toppa di cielo
in alto, un ragnatelo
si squarcia al passo: si svincola
d’attorno un’ora fallita.
È uscito un rombo di treno,
non lunge, ingrossa. Uno sparo
si schiaccia nell’etra vetrino.
Strepita un volo come un acquazzone,
venta e vanisce bruciata
una bracciata di amara
tua scorza, istante: discosta
esplode furibonda una canea.
 
Tosto potrà rinascere l’idillio.
S’è ricomposta la fase che pende
dal cielo, riescono bende
leggere fuori…;
il fitto dei fagiuoli
n’è scancellato e involto.
Non serve più rapid’ale,
né giova proposito baldo;
non durano che le solenni cicale
in questi saturnali del caldo.
Va e viene un istante in un folto
una parvenza di donna.
È disparsa, non era una Baccante.
 
Sul tardi corneggia la luna.
Ritornavamo dai nostri
vagabondari infruttuosi.
Non si leggeva più in faccia
al mondo la traccia
della frenesia durata
il pomeriggio. Turbati
discendevamo tra i vepri.
Nei miei paesi a quell’ora
cominciano a fischiare le lepri.
 

 —

FLUSSI
 
I fanciulli con gli archetti
spaventano gli scriccioli nei buchi.
Cola il pigro sereno nel riale
che l’accidia sorrade,
pausa che gli astri donano ai malvivi
camminatori delle bianche strade.
Alte, tremano guglie di sambuchi
e sovrastano al poggio
cui domina una statua dell’Estate
fatta camusa da lapidazioni;
e su lei cresce un roggio
di rampicanti ed un ronzio di fuchi.
Ma la dea mutilata non s’affaccia
e ogni cosa si tende alla flottiglia
di carta che discende lenta il vallo.
Brilla in aria una freccia,
si configge s’un palo, oscilla tremula.
La vita è questo scialo
di triti fatti, vano
più che crudele.
Tornano
le tribù dei fanciulli con le fionde
se è scorsa una stagione od un minuto,
e i morti aspetti scoprono immutati
se pur tutto è diruto
e più dalla sua rama non dipende
il frutto conosciuto.
– Ritornano i fanciulli…; così un giorno
il giro che governa
la nostra vita ci addurrà il passato
lontano, franto e vivido, stampato
sopra immobili tende
da un’ignota lanterna.-
E ancora si distende
un dòmo celestino ed appannato
sul fitto bulicame del fossato:
e soltanto la statua
sa che il tempo precipita e s’infrasca
vie più nell’accesa edera.
E tutto scorre nella gran discesa
e fiotta il fosso impetuoso tal che
s’increspano i suoi specchi:
fanno naufragio i piccoli sciabecchi
nei gorghi dell’acquiccia insaponata.
Addio! – fischiano pietre tra le fronde,
la rapace fortuna è già lontana,
cala un’ora, i suoi volti riconfonde,-
e la vita è crudele più che vana.
  

CLIVO
 
Viene un suono di buccine
dal greppo che scoscende,
discende verso il mare
che tremola e si fende per accoglierlo.
Cala nella ventosa gola
con l’ombre la parola
che la terra dissolve sui frangenti;
si dismemora il mondo e può rinascere.
Con le barche dell’alba
spiega la luce le sue grandi vele
e trova stanza in cuore la speranza.
Ma ora lungi è il mattino,
sfugge il chiarore e s’aduna
sovra eminenze e frondi,
e tutto è più raccolto e più vicino
come visto a traverso di una cruna;
ora è certa la fine,
e s’anche il vento tace
senti la lima che sega
assidua la catena che ci lega.
 
Come una musicale frana
divalla il suono, s’allontana.
Con questo si disperdono le accolte
voci dalle volute
aride dei crepacci;
il gemito delle pendìe,
là tra le viti che i lacci
delle radici stringono.
Il clivo non ha più vie,
le mani s’afferrano ai rami
dei pini nani; poi trema
e scema il bagliore del giorno;
e un ordine discende che districa
dai confini
le cose che non chiedono
ormai che di durare, di persistere
contente dell’infinita fatica;
un crollo di pietrame che dal cielo
s’inabissa alle prode…
 
Nella sera distesa appena, s’ode
un ululo di corni, uno sfacelo.

II
 
ARSENIO
 
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore uguali,
strette in trama, un ritornello
di castagnette.
 
È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…
 
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch’è prossima: se il fulmine la incide,
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s’arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso.
 
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva,-
e fuori, dove un’ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l’acetilene –
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che s’abbevera,
tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un frùscio immenso rade
la terra, giù s’afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
 
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell’onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell’ora che si scioglie, il cenno d’una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
 
 
III
 
CRISALIDE
 
L’albero verdecupo
si stria di giallo tenero e s’ingromma.
Vibra nell’aria una pietà per l’avide
radici, per le tumide cortecce.
Son vostre queste piante
scarse che si rinnovano
all’alito d’Aprile, umide e liete.
Per me che vi contemplo da quest’ombra,
altro cespo riverdica, e voi siete.
 
Ogni attimo vi porta nuove fronde
e il suo sbigottimento avanza ogni altra
gioia fugace; viene a impetuose onde
la vita a questo estremo angolo d’orto.
Lo sguardo ora vi cade su le zolle;
una risacca di memorie giunge
al vostro cuore e quasi lo sommerge.
Lunge risuona un grido: ecco precipita
il tempo, spare con risucchi rapidi
tra i sassi, ogni ricordo è spento; ed io
dall’oscuro mio canto mi protendo
a codesto solare avvenimento.
 
Voi non pensate ciò che vi rapiva
come oggi, allora, il tacito compagno
che un meriggio lontano vi portava.
Siete voi la mia preda, che m’offrite
un’ora breve di tremore umano.
Perderne, non vorrei neppure un attimo:
è questa la mia parte, ogni altra è vana.
La mia ricchezza è questo sbattimento
che vi trapassa e il viso
in alto vi rivolge; questo lento
giro d’occhi che ormai sanno vedere.
 
Così va la certezza d’un momento
con uno sventolio di tende e di alberi
tra le case; ma l’ombra non dissolve
che vi reclama, opaca. M’apparite
allora, come me, nel limbo squallido
delle monche esistenze; e anche la vostra
rinascita è uno sterile segreto,
un prodigio fallito come tutti
quelli che ci fioriscono d’accanto.
E il flutto che si scopre oltre le sbarre
come ci parla a volte di salvezza;
come può sorgere agile
l’illusione, e sciogliere i suoi fumi.
Vanno a spire sul mare, ora si fondono
sull’orizzonte in foggia di golette.
Spicca una d’esse un volo senza rombo,
l’acque di piombo come alcione profugo
rade. Il sole s’immerge nelle nubi,
l’ora di febbre, trepida, si chiude.
Un glorioso affanno senza strepiti
ci batte in gola: nel meriggio afoso
spunta la barca di salvezza, è giunta:
vedila che sciaborda tra le secche,
esprime un suo burchiello che si volge
al docile frangente – e là ci attende.
 
Ah crisalide, com’è amara questa
tortura senza nome che ci volve
e ci porta lontani – e poi non restano
neppure le nostre orme sulla polvere;
e noi andremo innanzi senza smuovere
un sasso solo della gran muraglia;
e forse tutto è fisso, tutto è scritto,
e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario!
 
Nell’onda e nell’azzurro non è scia.
Sono mutati i segni della proda
dianzi raccolta come un dolce grembo.
Il silenzio ci chiude nel suo lembo
e le labbra non s’aprono per dire
il patto ch’io vorrei
stringere col destino: di scontare
la vostra gioia con la mia condanna.
È il voto che mi nasce ancora in petto,
poi finirà ogni moto. Penso allora
alle tacite offerte che sostengono
le case dei viventi; al cuore che abdica
perché rida un fanciullo inconsapevole;
al taglio netto che recide, al rogo
morente che s’avviva
d’un arido paletto,
e ferve trepido.
 
 
MAREZZO
 
Aggotti, e già la barca si sbilancia
e il cristallo dell’acque si smeriglia.
S’è usciti da una grotta a questa rancia
marina che uno zefiro scompiglia.
 
Non ci turba, come anzi, nell’oscuro,
lo sciame che il crepuscolo sparpaglia,
dei pipistrelli; e il remo che scandaglia
l’ombra non urta più il roccioso muro.
Fuori è il sole: s’arresta
nel suo giro e fiammeggia.
Il cavo cielo se ne illustra ed estua,
vetro che non si scheggia.
 
Un pescatore da un canotto fila
la sua lenza nella corrente.
Guarda il mondo del fondo che si profila
come sformato da una lente.
 
Nel guscio esiguo che sciaborda,
abbandonati i remi agli scalmi,
fa che ricordo non ti rimorda
che torbi questi meriggi calmi.
Ci chiudono d’attorno sciami e svoli,
è l’aria un’ala morbida.
Dispaiono: la troppa luce intorbida.
Si struggono i pensieri troppo soli.
 
Tutto fra poco si farà più ruvido,
fiorirà l’onda di più cupe strisce.
Ora resta così, sotto il diluvio
del sole che finisce.
 
Un ondulamento sovverte
forme confini resi astratti:
ogni forza decisa già diverte
dal cammino. La vita cresce a scatti.
 
È come un falò senza fuoco
che si preparava per chiari segni:
in questo lume il nostro si fa fioco,
in questa vampa ardono volti e impegni.
 
Disciogli il cuore gonfio
nell’aprirsi dell’onda;
come una pietra di zavorra affonda
il tuo nome nell’acque con un tonfo!
 
Un astrale delirio si disfrena,
un male calmo e lucente.
Forse vedremo l’ora che rasserena
venirci incontro sulla spera ardente.
 
Digradano su noi pendici
di basse vigne, a piane.
Quivi stornellano spigolatrici
con voci disumane.
 
Oh la vendemmia estiva,
la stortura nel corso
delle stelle! – e da queste in noi deriva
uno stupore tinto di rimorso.
 
Parli e non riconosci i tuoi accenti.
La memoria ti appare dilavata.
Sei passata e pur senti
la tua vita consumata.
 
Ora, che avviene?, tu riprovi il peso
di te, improvvise gravano
sui cardini le cose che oscillavano,
e l’incanto è sospeso.
 
Ah qui restiamo, non siamo diversi.
Immobili così. Nessuno ascolta
la nostra voce più. Così sommersi
in un gorgo d’azzurro che s’infolta.
 
 

CASA SUL MARE

Il viaggio finisce qui:

nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.
 
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
 
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.
 
Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.
 
 
I MORTI
 
Il mare che si frange sull’opposta
riva vi leva un nembo che spumeggia
finché la piana lo riassorbe. Quivi
gettammo un dì su la ferrigna costa,
ansante più del pelago la nostra
speranza! – e il gorgo sterile verdeggia
come ai dì che ci videro fra i vivi.
 
Or che aquilone spiana il groppo torbido
delle salse correnti e le rivolge
d’onde trassero, attorno alcuno appende
ai rami cedui reti dilunganti
sul viale che discende
oltre lo sguardo;
reti stinte che asciuga il tocco tardo
e freddo della luce; e sopra queste
denso il cristallo dell’azzurro palpebra
e precipita a un arco d’orizzonte
flagellato.
Più d’alga che trascini
il ribollio che a noi si scopre, muove
tale sosta la nostra vita: turbina
quanto in noi rassegnato a’ suoi confini
risté un giorno; tra i fili che congiungono
un ramo all’altro si dibatte il cuore
come la gallinella
di mare che s’insacca tra le maglie;
e immobili e vaganti ci ritiene
una fissità gelida.
Così
forse anche ai morti è tolto ogni riposo
nelle zolle: una forza indi li tragge
spietata più del vivere, ed attorno,
larve rimorse dai ricordi umani,
li volge fino a queste spiagge, fiati
senza materia o voce
traditi dalla tenebra; ed i mozzi
loro voli ci sfiorano pur ora
da noi divisi appena e nel crivello
del mare si sommergono…
 
 
DELTA
 
La vita che si rompe nei travasi
secreti a te ho legata:
quella che si dibatte in sé e par quasi
non ti sappia, presenza soffocata.
 
Quando il tempo s’ingorga alle sue dighe
la tua vicenda accordi alla sua immensa,
ed affiori, memoria, più palese
dall’oscura regione ove scendevi,
come ora, al dopopioggia, si riaddensa
il verde ai rami, ai muri il cinabrese.
 
Tutto ignoro di te fuor del messaggio
muto che mi sostenta sulla via:
se forma esisti o ubbia nella fumea
d’un sogno t’alimenta
la riviera che infebbra, torba, e scroscia
incontro alla marea.
 
Nulla di te nel vacillar dell’ore
bige o squarciate da un vampo di solfo
fuori che il fischio del rimorchiatore
che dalle brume approda al golfo.
INCONTRO
 
Tu non m’abbandonare mia tristezza
sulla strada
che urta il vento forano
co’ suoi vortici caldi, e spare; cara
tristezza al soffio che si estenua: e a questo,
sospinta sulla rada
dove l’ultime voci il giorno esala
viaggia una nebbia, alta si flette un’ala
di cormorano.
 
La foce è allato del torrente, sterile
d’acque, vivo di pietre e di calcine;
ma più foce di umani atti consunti,
d’impallidite vite tramontanti
oltre il confine
che a cerchio ci rinchiude: visi emunti,
mani scarne, cavalli in fila, ruote
stridule: vite no: vegetazioni
dell’altro mare che sovrasta il flutto.
 
Si va sulla carraia di rappresa
mota senza uno scarto,
simili ad incappati di corteo,
sotto la volta infranta ch’è discesa
quasi a specchio delle vetrine,
in un’aura che avvolge i nostri passi
fitta e uguaglia i sargassi
umani fluttuanti alle cortine
dei bambù mormoranti.
 
Se mi lasci anche tu, tristezza, solo
presagio vivo in questo nembo, sembra
che attorno mi si effonda
un ronzio qual di sfere quando un’ora
sta per scoccare;
e cado inerte nell’attesa spenta
di chi non sa temere
su questa proda che ha sorpresa l’onda
lenta, che non appare.
 
Forse riavrò un aspetto: nella luce
radente un moto mi conduce accanto
a una misera fronda che in un vaso
s’alleva s’una porta di osteria.
A lei tendo la mano, e farsi mia
un’altra vita sento, ingombro d’una
forma che mi fu tolta; e quasi anelli
alle dita non foglie mi si attorcono
ma capelli.
 
Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari
qual sei venuta, e nulla so di te.
La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari
dal giorno sparsa già. Prega per me
allora ch’io discenda altro cammino
che una via di città,
nell’aria persa, innanzi al brulichio
dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io

scenda senza viltà.

RIVIERE

 
Riviere,
bastano pochi stocchi d’erbaspada
penduli da un ciglione
sul delirio del mare;
o due camelie pallide
ne i giardini deserti,
e un eucalipto biondo che si tuffi
tra sfrusci e pazzi voli
nella luce;
ed ecco che in un attimo
invisibili fili a me si asserpano,
farfalla in una ragna
di fremiti d’olivi, di sguardi di girasoli.
 
Dolce cattività, oggi, riviere
di chi s’arrende per poco
come a rivivere un antico giuoco
non mai dimenticato.
Rammento l’acre filtro che porgeste
allo smarrito adolescente, o rive:
nelle chiare mattine si fondevano
dorsi di colli e cielo; sulla rena
dei lidi era un risucchio ampio, un eguale
fremer di vite
una febbre del mondo; ed ogni cosa
in se stessa pareva consumarsi.
 
Oh allora sballottati
come l’osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
dal sole divorata…
Erano questi,
riviere, i voti del fanciullo antico
che accanto ad una rósa balaustrata
lentamente moriva sorridendo.
 
Quanto, marine, queste fredde luci
parlano a chi straziato vi fuggiva.
Lame d’acqua scoprentisi tra varchi
di labili ramure; rocce brune
tra spumeggi; frecciare di rondoni
vagabondi…
Ah, potevo
credervi un giorno o terre,
bellezze funerarie, auree cornici
all’agonia d’ogni essere.
Oggi torno
a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore
par sciogliersi in ricordi lieti – e atroci.
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d’unirvi
in un porto sereno di saggezza.
Ed un giorno sarà ancora l’invito
di voci d’oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l’elegia; rifarsi;
non mancar più.
Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v’investe, riviere,
rifiorire!
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